Aveva più di novant’anni e si era appena sposato. Una sola domanda lo faceva inalberare: Salò
Aveva più di novant’anni e si era appena sposato. Una sola domanda lo faceva inalberare: Salò. «Di cosa dovrei pentirmi? Non amo il pentimento, un sentimento cattolico che disprezzo. Perché “dalla parte sbagliata”? Perché era la parte perdente?». Non c’è proprio nulla che le pesa? Neppure l’accusa di aver fucilato? «Una cosa che mi pesa c’è: aver sentito talora la mia scelta per la Repubblica sociale, che mai rinnegherò, come un freno per fare sino in fondo quel che avrei voluto, a fianco della sinistra. Voltare gabbana, mai. Le stesse cose che mi avevano spinto a Salò, l’anticlericalismo, l’idea sociale della Carta del lavoro e della partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, l’istinto dell’anarchia e della libertà, nel dopoguerra mi spingevano a impegnarmi con la sinistra».
Allora provavi a insistere: lasci stare la sinistra e del dopoguerra, mi parli del 1943. E lui, fierissimo: «Per chi come me leggeva Salgari e l’Avventuroso, all’astuzia di Ulisse preferiva la forza di Achille, era cresciuto nel mito di Baracca e di D’Annunzio, dei trasvolatori dell’Atlantico e dei calciatori bicampioni del mondo, il fellone era Badoglio che scappava. Che ha senso ricordare oggi: la parte legale non era quella? Per chi come me aveva il mito non tanto del Duce ma di Ettore Muti ucciso dai badogliani, di Italo Balbo abbattuto nel cielo della Sirte, degli eroi della Folgore disfatti a Birel Gobi, la “parte legale”, l’Italia, era quella. E io ho combattuto per l’Italia».
La guerra civile
«Non amavo Mussolini per la sua retorica. Come non ho amato Berlusconi per la sua pompa, pur se riconosco che è un grande attore. L’ideale era D’Annunzio, lui che alla testa dei legionari si alza sulla moto a offrire il petto ai colpi, lui che dopo una notte con l’imperatrice mormora a chi gli chiede com’è andata: “Non ho più i miei sessant’anni”. Da bambino sono cresciuto in una dependance della villa I Tatti, dove il critico Bernard Berenson custodiva arcignamente la sua collezione. Nonno Ferdinando lavorava per lui. Avevamo una sola finestra che dava sui Tatti; Berenson ordinò al nonno di murarla. Così noi andavamo a sbirciare alla Capponcina, la villa di D’Annunzio lì accanto, dove ancora aleggiava l’ombra del Vate».
«Da ragazzo ero innamorato di zia Livia, la sorella di mia madre, sposata con zio Alfio. Gli chiedevo: zio, cos’è il fascismo? Rispondeva: il fascismo è l’Italia. Dopo il 25 luglio 1943 e l’arresto del Duce andarono a prenderlo in quattro, lui aveva una rivoltella in tasca ma non la usò, lo massacrarono di botte, agonizzò per giorni sputando a pezzi i polmoni. Io avevo 18 anni, tiravo di boxe, ero forte e veloce. Partigiani in giro non ce n’erano, e devo dire che non ne ho mai visti, se non nella primavera del ’45. Non voglio generalizzare, ma certo molti divennero partigiani in quanto renitenti». Altri grandi attori andarono a Salò, da Vianello a Salerno. «Di Dario Fo non saprei. Con gli amici occorre delicatezza; e Dario è un amico. Non ho mai osato porgli l’argomento».